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Lo Stato del dissenso

  • La Redazione
  • 1 apr
  • Tempo di lettura: 3 min

Gaza e Israele

Dopo il fallimento del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, e la successiva ripresa delle operazioni militari nella Striscia di Gaza che hanno portato alla morte di 830 palestinesi (tra questi, sarebbero ben 300 i bambini rimasti uccisi) si sono sviluppati dei moti di protesta contro l’organizzazione politico-militare Hamas, acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, ovvero “Movimento di Resistenza Islamica” che dal 2006 governa sui territori palestinesi della Striscia.

Le immagini riportate da varie testate internazionali mostrano una folla di persone scalze, stanche e provate che marciano e intonano canti di protesta contro il gruppo militare. Le proteste sono poi state disperse da alcuni militanti di Hamas, i quali armati di fucile hanno iniziato a sparare e ad assaltare i manifestanti. Inoltre, il gruppo ha bollato questi moti come figli di “sospette agende politiche” che tenterebbero di far scivolare la responsabilità del conflitto sul gruppo palestinese, anziché su Israele.


Nei mesi scorsi lo Stato Ebraico aveva denunciato come gli aiuti umanitari venissero utilizzati da Hamas per ricostruire le proprie armi e riorganizzare la propria potenza bellica, notizia utilizzata come movente per bloccare dall’inizio di marzo l’ingresso di suddetti aiuti. L’UNRWA, che Israele ha definito collaboratrice di Hamas, ha riportato che nelle ultime settimane nessun tipo di approvvigionamento è riuscito a raggiungere Gaza, situazione che ha ulteriormente complicato la vita dei cittadini palestinesi.

La fame unita alla rabbia hanno spinto parte della popolazione a riversarsi sulle strade di Beit Lahia, Khan Yunis, Jabalia e Gaza City nelle proteste più partecipate di sempre nei confronti del gruppo islamista, lanciando un segnale allarmante ai vertici dell’organizzazione.


I dimostranti imputano ad Hamas una corresponsabilità nel conflitto in corso, inoltre rimproverano il gruppo non aver rinunciato alla leadership di Gaza in nome di una pace duratura e che, così come Israele, essi trattino i civili palestinesi come meri numeri che si aggiungono ad un sempre più alto conteggio delle vittime. I moti spontanei di questi giorni suonano come un gesto di autodifesa da parte di parte della popolazione gazese che, dimostrando l’opposizione ad Hamas, spera di non incorrere nella violenza israeliana.



"Sul fronte israeliano la gestione del sissenso non è troppo diversa"



Cannoni ad acqua e spray urticante.

Questa la risposta alle migliaia di israeliani in marcia verso la residenza a Gerusalemme di Benjamin Netanyahu.

Dall’inizio della guerra infatti la parte della popolazione non-oltranzista protesta contro la gestione del conflitto da parte del governo Netanyahu giudicata inefficace per quello che è l’obiettivo, liberare gli ostaggi (sono ancora 59 le persone nelle mani del gruppo palestinese, di cui 24 sarebbero ancora vivi).


Ultimamente al centro di queste proteste c’è stato il licenziamento del capo dello Shin Bet, il servizio segreto interno, Ronen Bar, un gesto senza precedenti nella storia di Israele, un vero attentato ai fondamenti della democrazia israeliana.

Il licenziamento di Bar è solo l’ultimo episodio della saga “Netanyahu VS apparati”.


Già ben prima della guerra, la posizione dell’attuale primo ministro era in bilico a seguito della presentazione di una riforma della giustizia che imbavaglierebbe la Corte Suprema abolendo la “clausola di ragionevolezza”, una prerogativa che permette alla Corte di annullare dei provvedimenti amministrativi ritenuti “non ragionevoli”. A seguito dell’approvazione alla Knesset, disertata dall’opposizione in segno di protesta, ogni sabato folle oceaniche si riversavano per le strade del paese per protestare contro una norma definita anti-democratica.


Arrivando a Bar, quest’ultimo aveva reso pubblico un rapporto sui fatti del 7 ottobre in cui, oltre a sottolineare gli errori dei servizi segreti, venivano denunciate le responsabilità della politica: in particolare nel rapporto vengono citati l’avvertimento dell’esercito, ignorato dal governo, ore prima dell’attacco, la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso la trapelazione di documenti falsi e l’intimidazione nei confronti di testimoni. Le accuse sono ovviamente inaccettabili per il capo dell’esecutivo, già in rotta con il capo dei servizi segreti e con l’intero apparato in generale, che ha motivato il licenziamento con la “mancanza di fiducia” nei suoi confronti.


Netanyahu si trova quindi in un campo minato tra le accuse di corruzione e frode, per cui si è presentato alla sbarra degli imputati lunedì, il grande dissenso interno (⅔ della popolazione crede che si debba dimettere), l’opposizione degli apparati e il ricatto dell’ultra-destra, contraria (usando un eufemismo) alla tregua ma fondamentale per l’esistenza del governo… e intanto Smothrich ha abbandonato la nave.


In conclusione, sia Hamas che Netanyahu sono due “cadaveri politici” che devono la persistenza nella loro posizione al conflitto in corso. La storia ci insegna già quanto sia difficile per i leader passare dallo “stato di guerra” a quello di pace, figurarsi nella situazione in cui si trovano Hamas e Netanyahu.


"Mentre però la fine del premier israeliano potrà accadere in maniera democratica quella di Hamas accadrà, inevitabilmente, nel sangue"




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