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Arriva il "Cessate il fuoco"

  • Alessandro Morelli
  • 17 gen
  • Tempo di lettura: 4 min

Ma da dove riparte Gaza?

Dopo 15 mesi di raid e bombardamenti sembra essere arrivato il cessate il fuoco tra Hamas e Israele: durerà 42 giorni e sarà diviso in tre fasi in cui le due parti si impegneranno a liberare degli ostaggi (si parla di 33 ostaggi israeliani e centinaia di palestinesi) e, inoltre, sarà garantito l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia. Partiamo col dire che, al momento della scrittura dell’articolo, l’accordo non è stato ancora ratificato dal gabinetto di sicurezza israeliano con Israele che ha accusato Hamas di aver rinnegato parti dell’accordo e che “il gabinetto non si riunirà finché i mediatori (USA, Egitto e Qatar ndr) non comunicheranno che Hamas ha accettato tutti gli elementi dell'accordo”... questa dichiarazione sembra però rispondere a una necessità di prendere tempo date le spaccature all’interno della debole maggioranza che sostiene il governo Netanyahu.


La maggioranza Netanyahu, infatti, si regge su 68 seggi, solamente 8 in più della maggioranza assoluta, di cui 13 appartenenti ai partiti di ultradestra “Potere Ebraico” e “Sionismo Religioso” guidati rispettivamente da Itamar Ben-Gvir, ministro della sicurezza, e Bezalel Smotrich, ministro delle finanze. I due leader oltranzisti hanno definito l’accordo “una resa” e hanno annunciato che si dimetteranno qualora venisse approvato a meno che la guerra riparta al termine dei 42 giorni garantiti nella tregua.



La posizione dei due alleati mette Netanyahu davanti a un bivio: Qualora sostenesse l’accordo si ritroverebbe senza un governo da guidare, a meno che ci sia la volontà di riprendere la guerra al termine della tregua. Se infine il trattato verrà ratificato si tratta indubbiamente di una notizia positiva, ma adesso che succede? Le parti si impegneranno a convivere pacificamente e a ricostruire un rapporto, almeno, di tolleranza? Stando alle dichiarazioni degli esponenti di Hamas e del governo israeliano sembra proprio di no: Prima abbiamo citato le posizioni della componente ultraortodossa del governo israeliani, influentissima nelle scelte del governo dato il peso politico che ricopre, ma dal lato palestinese la situazione non è diversa. Il movimento islamista palestinese ha dichiarato “le atrocità di Israele non saranno dimenticate”, lasciando presagire che il conflitto sia tutt’altro che finito. Molti esperti credono infatti che si sia entrati solo in una nuova fase della guerra, una parte “non guerreggiata” nella quale saranno affrontate numerose questioni rimaste in sospeso sotto le bombe israeliane. Innanzitutto, quali sono le condizioni in cui si trovano Gaza e la sua popolazione?


Citando i dati di Oxfam e di Emergency, la situazione è tragica: Dal 7 ottobre sono stati uccisi più di 47.000 palestinesi, i feriti sono oltre 110.000 e 1,9 milioni di persone sono sfollate e vivono in tende o sistemazioni di fortuna. Gaza è devastata con oltre il 70% delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie distrutte o danneggiate a causa dei bombardamenti israeliani che hanno lasciato la popolazione senza accesso a fonti di acqua pulita (il 98% dell’acqua a Gaza è non potabile), solo il 47% degli ospedali sono al momento parzialmente funzionanti, mentre sono distutti o danneggiati l’87% degli edifici scolastici, tutte le università, il 60% delle unità abitative, il 65% delle reti stradali e l’80% degli immobili commerciali. Oltre al nodo della ricostruzione di Gaza c’è quello ben più gravoso dell’odio lasciato nei figli, nei genitori, nei fratelli e nelle sorelle delle oltre 47.000 vittime delle bombe israeliane. A questo proposito, Il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha dichiarato “Valutiamo che Hamas abbia reclutato tanti nuovi militanti quanti ne ha persi (…) questa è la ricetta per un’insurrezione duratura e una guerra perpetua”. Mentre la ricostruzione di Gaza, pur essendo un processo lungo, sarà possibile soprattutto grazie agli aiuti internazionali (l’UE ha già dichiarato di inviare 120 milioni di euro di aiuti), ricostruire, o meglio costruire, un rapporto adesso è più difficile che mai in quanto le parti sono al massimo livello di odio e tensione di sempre.


Come scritto precedentemente, i palestinesi hanno vissuto una catastrofe umanitaria per mano della Tsahal (forze di difesa israeliane), è stato negato l’ingresso nella Striscia ai beni di prima necessità, sono stati distrutti luoghi di culto, università, negata l’acqua potabile e, secondo la Corte Penale Internazionale, sono stati compiuti crimini di guerra e contro l’Umanità che i palestinesi, a prescindere da Hamas che comunque non è stata sradicata, non dimenticheranno. Israele, invece, è ancora traumatizzata dai fatti del 7 ottobre, tanto che nei mesi immediatamente successivi all’aggressione di Hamas la richiesta di psicofarmaci è aumentata del 30%, e la componente ultraortodossa (e quindi quella scesa in piazza contro l’accordo al grido di “Non si tratta col demonio”) è in ascesa, soprattutto a livello demografico: la componente haredim, infatti, si attesta solo al 13,6% ma ha un tasso di crescita del 4% annuo, con 6,4 figli per donna rispetto a una media di 2,5. Pensare quindi che questa tregua sia un preludio a un abbassamento di tensione o addirittura alla pace è fuorviante; dovremo probabilmente abituarci a convivere col conflitto israelo-palestinese, con i suoi morti e la sua violenza.

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